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L’operamonthly magazine in the opera world Anno XV – N. 153 Attualità La Vedova acerba Salsomaggiore: al Teatro Nuovo della località termale, il capolavoro di Lehár con gli allievi di uno dei corsi della Fondazione Arturo Toscanini; alle buone intenzioni non ha corrisposto un risultato artistico altrettanto valido. I1 quasi secolare successo dell'operetta La vedova allegra di Franz Lehár non conosce flessioni; sia nella versione integrale realizzata nell'ambito delle stagioni liriche, sia nella più agile rilettura proposta dalle compagnie specializzate, ha sempre ottenuto favorevole accoglienza. Nell'edizione presentata al Teatro Nuovo di Salso- maggiore, proprio nel cuore delle terre verdiane, dalla Fondazione Arturo Toscanini, il cast è stato scelto tra gli allievi di uno dei numerosi corsi di formazione promossi dalla Toscanini, quello finalizzato appunto alla creazione non solo di una nuova generazione di interpreti d’operetta, ma di tutte le professionalità che concorrono alla nascita di uno spettacolo. Purtroppo alla bontà delle intenzioni non ha corrisposto un esito altrettanto valido dal punto di vista scenico e musicale. Vuoi per la scarsa maturità di alcuni esecutori, vuoi a causa di una regia priva di idee, la rappresentazione ha rasentato spesso la noia, cosa che per la più celebre e applaudita operetta di tutti i tempi è quasi una contraddizione in termini. Buona parte della responsabilità pesa sulle spalle del maestro Massimo De Bernart. Pur avendo a disposizione un'Orchestra Toscanini in gran spolvero quanto a intonazione ed efficacia timbrica, il direttore non è mai uscito dai confini di un'esecuzione di routine, rifugiandosi in un anonimato che da una bacchetta della sua esperienza non è lecito attendersi. Disastrosa la regia di Flavio Ambrosini. Come già accennato, le idee scarseggiano e si riducono a due sole novità, ammesso che possano definirsi tali: lo spostamento d’epoca agli anni Trenta e la trasformazione dello staterello immaginario del Pontevedro nel reale e tormentato Montenegro, i cui abitanti oggi non devono avere certo voglia di scherzare e non sarebbero lieti di vedere la loro terra martoriata dipinta come un regno da operetta. Debole, scenicamente e vocalmente, l'Hanna Glavary del soprano Marcella Orsatti, che mai ha avuto il piglio della protagonista. In altre recite, nel medesimo ruolo si è imposta con ben altra autorevolezza il soprano Paola Sanguinetti, dotata di purissima emissione lirica e padronanza del palcoscenico. Appena discreta la Valencienne di Simona Marinetti, che almeno ha cercato di dipingere il suo personaggio. Trascurabili le altre figure femminili. Il migliore tra gli uomini è stato Davide Malandra (Conte Danilo): nonostante una voce di mezzi limitati e di timbro non troppo gradevole, ha mostrato una buona disinvoltura d'attore, risultando alla fine abbastanza convincente. Troppo sopra le righe, invece, l'interpretazione di Stefanos Koroneos (Barone Zeta). Esilissimo, dal punto di vista vocale, il tenore Luigi Paulucci (Camillo de Rossillon), al punto da non riuscire a farsi sentire. Molto meglio, pur complessivamente modesto, Andrea Giovannini nella parte del Visconte Cascada. Massimo Loreto è un bravo attore di teatro: ma nei panni di Njegus, il più classico dei comici da operetta, sembrava un pesce fuor d'acqua. . Le coreografie di Giorgio Napolitano si sono mantenute rigorosamente, e giustamente, nel solco della tradizione. Eleganti e di ottimo gusto i costumi di Artemio, tutti giocati su tonalità tenui: grigio perla e nero nel primo atto, colori pastello nel secondo, appena più vivaci nella scena di Chez Maxim. Ma il colpo di grazia all'intero allestimento lo hanno dato le lugubri scenografie di Ferruccio Bigi. Pubblico tiepido durante la recita, molto generoso (anche troppo) alla fine. Paolo Borgognone |